venerdì 26 febbraio 2016

Nanga Parbat, ieri e oggi: la montagna condivisa

Una sagoma si avvicinava al Campo V del Nanga Parbat; è il 4 luglio 1953 e quella sagoma si chiama Hermann Buhl. Lo avevano dato per morto, gli altri della spedizione; rimasto solo per 41 ore di scalata, interrotta soltanto da un bivacco poco lontano dalla cima, su cui lasciò e fotografò la sua brava piccozza con annodata la bandiera del Tirolo. La sua impresa rimarrà l'unica prima assoluta di un ottomila in solitaria.

La Piccozza di Buhl in vetta al Nanga Parbat

Il fiume Indo, gonfiato dalle acque raccolte dai ghiacciai del Karakorum, scorre ai piedi del grande colosso, costretto a una lunga deviazione per oltrepassarlo e gettarsi libero nella lunga corsa verso il golfo del Bengala.

Stessa grande montagna, anno 1970; stesso organizzatore della spedizione precedente, Karl Maria Herrlingkoffer, tedesco. I tedeschi hanno sempre considerato il Nanga come una questione nazionale, fin dai tragici tentativi degli anni 30; ma anche questa volta l'impresa di scalare la parete Rupal, la più alta della Terra, è portata a termine da una coppia di tirolesi, anzi sud-tirolesi, anzi italiani: i fratelli Messner.

Reinhold, come Hermann, lasciò il resto della spedizione per tentare l'attacco alla cima in solitaria, dovendo procedere velocemente prima dell'arrivo del maltempo; fu poi raggiunto dal fratello Gunther, che però venne travolto da una valanga durante la laboriosa discesa dal versante Diamir, sterminato e inesplorato.

Reinhold Messner tornato in solitaria sul Nanga Parbat nel 1978

Ci vollero anni perché la versione di Messner, accusato di avere abbandonato a sé stesso il fratello, venisse accertata con tanto di prove. Il Nanga Parbat del resto non è esattamente una cima dove tutte le domeniche salgono comitive di gitanti... La stessa piccozza di Buhl fu trovata e portata a valle soltanto nel 1999.

Altra acqua è passata sotto i pochi ponti che oltrepassano l'Indio, e siamo arrivati a oggi, 26 febbraio 2016. Restava da compiere la prima ascesa invernale del Nanga Parbat, e destino ha voluto che neanche stavolta ci arrivasse un tedesco, bensì tre forti alpinisti provenienti da Italia, Spagna e Pakistan: Simone Moro, Alex Txikon e Muhammad Ali Sapdara.

Il mondo ha potuto seguire le fasi e le immagini della coraggiosa ascensione sui social network, trovandole magari nella stessa finestra in cui compariva il selfie del loro amico salito per l'occasione su una montagna a 45 minuti da casa. L'alpinismo si è evoluto, ha raggiunto nuovi record e nuovi trionfi dal sapore classico come quest'ultimo; si è evoluto anche il modo di comunicare con chi è a casa, seduto davanti al PC, e catapultato in diretta sulle creste di roccia e di ghiaccio.

Simone Moro e soci al Campo base prima della salita

Gli alpinisti che vogliono campare della loro passione, devono diventare professionisti della comunicazione. Eppure al centro di tutto c'è sempre la foto, il poter dimostrare che "io sono qui, ora". E quando ancora non c'era modo di fotografare, ci si dilungava in resoconti dettagliatissimi, che riempiono di polvere gli archivi CAI e affini di mezza Europa, sfogliati soltanto da qualche appassionato di storia dell'alpinismo.

Andare in montagna è un'attività speciale, e qui sentiamo molto più che in tanti altri campi la necessità di documentare, raccontare, condividere. I grandi colossi non se ne accorgono, hanno superato i millenni e non danno certo peso ad attimi per noi così importanti. Il tempo continua a scorrere interminabile, come le acque dei grandi fiumi ai loro piedi.

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